È l’anno dell’esordio di Pasolini dietro la macchina da presa con Accattone. Tra gennaio e febbraio, con Alberto Moravia ed Elsa Morante, è in India, poi in Africa. In maggio esce La religione del mio tempo, raccolta di versi che vincerà il premio Chianciano. A fine luglio il film è terminato; a settembre è proiettato al Festival di Venezia e accolto con grande diffidenza.
Quando il film arriva nelle sale, dopo due mesi di attesa per il visto censura che lo vieterà ai minori di diciotto anni, gruppi di neofascisti interrompono le proiezioni e minacciano gli spettatori. Il 18 novembre un’assurda accusa di rapina a mano armata e porto abusivo di armi da fuoco gli piomba addosso: una pura invenzione che i quotidiani rilanciano pubblicando fotografie dell’intellettuale col mitra spianato, in realtà scatti eseguiti sul set de Il gobbo (1960) di Carlo Lizzani.

Cinema

L’adozione del cinema come medium espressivo da parte di Pasolini appare, lungi dall’essere una scelta estemporanea, la conseguenza perfettamente logica di un approccio poetico-letterario all’esistente.
Se infatti dietro l’intenzione di dedicarsi alla Settima arte attraverso il suo ruolo-simbolo – il regista – agiscono motivazioni contingenti (un “rabbioso capriccio” nei confronti di registi e produttori rei di aver frustrato le sue sceneggiature, l’idea di espandere il proprio pubblico con un linguaggio ritenuto più universale), motivi profondi nutrono di significati il passaggio al cinema di un autore già letterariamente affermato. Accattone, per Pasolini, è idealmente l’ultimo capitolo di una trilogia sulle borgate romane composta da due romanzi (Ragazzi di vita e Una vita violenta) e, per l’appunto, un film. Ancora più, il cinema per l’intellettuale è il luogo di una riflessione filosofica sul concetto di reale: esattamente come il dialetto (ed è ovvio che Pasolini pensasse concretamente proprio alla lingua friulana), esso costituisce un “regresso lungo i gradi dell’essere”, un modo di riandare alla sorgente, al momento originario della realtà, privo di sovrastrutture linguistiche e sociali.
Inoltre la realtà stessa, per Pasolini, è cinema in natura: un infinito pianosequenza in cui gli esseri parlano il linguaggio della presenza. Accattone è la storia di un magnaccia (Vittorio Cataldi detto Accattone) che, persa la donna che sfruttava, la rimpiazza con un’altra, Stella (interpretata dall’attrice friulana Franca Pasut), della quale tuttavia presto s’innamora. Per mantenerla, tenta di trovarsi un impiego ma, incapace di sottostare agli obblighi lavorativi, tenterà la strada del furto. Si rivelerà un vicolo cieco.
La borgata di Accattone è un mondo originario, un cristallo fuori della Storia esattamente come il Friuli contadino della gioventù di Pasolini ed esattamente come la successiva Palestina/Italia meridionale de Il Vangelo secondo Matteo (1964), la Colchide di Medea (1969), l’Uganda e la Tanzania di Appunti per un’Orestiade africana (1970). Accattone è anche un film sulla redenzione: parlano chiaro l’esergo dantesco, la metaforica via crucis del protagonista (che assume i caratteri di un’autentica figura Christi). L’eredità neorealista in Pasolini viene rielaborata nel senso di una sacralizzazione del reale: dietro l’autenticità dei luoghi, dei volti, dello scarno stile registico, risuona qualcosa di universale e tremendo: il sacro, appunto.